Domenica 27 febbraio

VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Lc 6,39-45

Questa domenica, ultima prima del cammino quaresimale, completa il percorso al cuore del Vangelo di Luca, mettendoci in guardia soprattutto dalla nostra convinzione di essere giusti. Se siamo particolarmente impegnati nella cura della casa comune, se proviamo ad ascoltare il grido della terra e del povero, a quale rischio corriamo? E’ molto bello che Gesù metta subito in guardia i suoi discepoli, non appena li ha costituiti e nel primissimo insegnamento, sulle rive del lago.

Prosegue infatti oggi il vangelo delle beatitudini dell’evangelista Luca, che abbiamo visto in queste domeniche, quella pianura da cui parla Gesù che raccoglie attorno a sé folle di persone assetate di parola, desiderose di essere guarite, di toccare il Cristo. La sua parola tocca i nostri desideri, il tema dei nemici, la misericordia. L’essere “perfetti” senza giudicare, senza condannare, ma prendendo a modello la spogliazione di Dio, la misura del suo amore senza misura. Il vangelo di oggi si rivolge a chi crede di essere giusto e illuminato, chi pensa che ci sia una via migliore della misericordia. Normalmente chi si ritiene giusto, solitamente è più portato a condannare gli altri, i diversi. E quindi si convince che ci sia una via migliore, una sorta di teologia destinata solo a loro, e non ai carcerati e ai peccatori.

Usa l’immagine del cieco per esprimere queste persone. Non è semplicemente un “non vedente”, perché spesso i non vedenti sono quelli che ci vedono meglio. Pensate a San Francesco che compone il Cantico, quale bellezza riusciva a vedere nonostante i suoi occhi fossero chiusi da mesi a causa del glaucoma e del cauterio subito a Poggio Bustone. Il cieco non sa da dove viene, né dove va, non si rende conto di dove si trovi, non ha coscienza di chi sia Dio e i fratelli. Se un cieco guida un altro cieco, finiscono entrambi in una fossa! Finiscono nella morte, perché solo Dio che è padre e madre può generare la vita. Il Dio “uterino” di cui si parlava qualche versetto prima, e di cui abbiamo visto le caratteristiche domenica scorsa.

“Non c’è discepolo sopra il maestro”, si riferisce direttamente ai suoi, citando sé stesso come maestro. Un maestro strano, che va a cena con i peccatori, che vive immerso nelle folle assetate di speranza, che lava i piedi ai suoi amici. Gesù è il termine di paragone per i suoi discepoli, che non devono essere “sopra di lui”, non devono rischiare di essere superbi. Di conseguenza, questo messaggio riguarda ciascuno di noi, specie chi di noi è più impegnato con la chiesa e rischia di vivere questa presunzione farisaica.

La presunzione è stupidità. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello”, una delle immagini più celebri del vangelo. La presunzione porta a rendersi conto delle pagliuzze presenti negli occhi del fratello, e non si rende conto di avere una pagliuzza gigante, una trave! A parte l’iperbole che usa come paradosso Gesù per rendere l’idea, ma proviamo a immaginare una persona con una trave in un occhio. Come fa un uomo ad avere in un occhio una trave? È una persona certamente morta! La stupidità, la presunzione, porta solo alla morte, solo alla fossa! Chi giudica è già morto! Non è figlio di Dio, non è fratello di nessuno. Come si fa a vivere con una trave in un occhio? È la morte spirituale dell’uomo, quando per stupidità passiamo il tempo a giudicare gli altri.

A volte, specie in ambienti dove si vive la carità, si ripresenta questa immagine falsamente zelante: lascia che ti aiuti io a togliere le tue piccole pagliuzze! Quasi come se la nostra azione possa salvare il fratello, il nostro zelo fisso sui difetti dell’altro, per correggerli. Ecco, se queste azioni sono autocentrate per ingrandire la nostra superbia, ci dice Gesù che allora siamo già morti! Nel vangelo di Luca non è ancora il tempo per la correzione fraterna, bisognerà aspettare almeno fino al capitolo 17. Per noi invece, spesso, la correzione fraterna arriva subito. Quanto abbiamo ancora da imparare da questo maestro ricco di sapienza!

Gesù non nega l’aiuto fraterno, non dice di non togliere la pagliuzza dell’altro, ma ci ricorda che prima bisogna togliere le travi che abbiamo nei nostri occhi, che non solo non ci fanno vedere, ma neppure ci fanno vivere. Quando avremo lavorato prima su noi stessi, imparando a riconoscere le nostre travi, ad accogliere con amore gli altri, allora forse possiamo cominciare a pensare di dare una mano. E quell’aiuto non sarà effimero, autocentrato, ma porterà tanto frutto. E infatti il discorso di Gesù prosegue volgendo lo sguardo al creato, e come spesso nel suo stile prendendo spunto dalla creazione per rendere più efficace il suo insegnamento.

“Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo”, letteralmente “albero bello”. Usa la metafora dell’albero per raccontare l’uomo, e per concludere il discorso delle beatitudini. Poi userà l’immagine del cuore, e infine l’immagine della casa, non presente nel vangelo di oggi. Ma è bello vedere come Gesù, per descrivere l’uomo con uno sguardo olistico, prenda in prestito tre immagini: una immagine del Creato, una immagine interiore, e infine una immagine di relazioni. L’albero è simbolo della vita perché prende qualcosa che non ha vita, sorella terra, fratello vento, sorella acqua, fratello fuoco dal sole, i quattro elementi del Cantico, per trasformarli in vita. È simbolo dell’uomo, radicato nella terra, che non striscia ma svetta verso il cielo, con i rami protesi verso la luce, come un uomo in preghiera. Con le radici nascoste nell’abisso della tenebra, il buio dei desideri umani, ma per natura sente la sete di luce. Un albero che vive di stagioni, una primavera di giovinezza, l’estate di frutti, la decadenza, ma la rinascita, la risurrezione. Tutta la Bibbia è ricca di immagini di alberi, di metafore sull’uomo partendo dall’osservazione del Creato. A partire da Eden, dove ci sono tanti alberi, ma due sono particolari: c’è l’albero della vita, quello della pienezza, e c’è l’albero della conoscenza, che può portare alla morte. E poi c’è un altro albero importantissimo, l’albero della croce che svetta sulla collina di Golgota, il legno dove si concretizzano tutte le contraddizioni e le sofferenze umane, dove viene ucciso il giusto. Ma è anche un albero dove si concretizza l’amore perfetto, il dono totale di sé, l’albero che nell’Apocalisse da frutto dodici mesi l’anno, cioè sempre!

L’albero bello fa frutti belli. Non si sforza neppure, è la sua natura. Ogni uomo agisce secondo la propria natura. Questo ci aiuta a capire se, nel nostro cammino verso la conversione, siamo sulla strada giusta: basta guardare i frutti! Quali sono i frutti belli? Basti, per esempio, leggere la lettera ai Galati 5, “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. Se c’è questo, forse siamo sulla strada giusta! Se c’è la misericordia, c’è tutto. In greco, la pagliuzza è “carphos”, il frutto è “carpòs”, suona quasi uguale, quasi ci si confonde tra una pagliuzza e un frutto bello! Il frutto cattivo, nella traduzione greca sarebbe meglio dire “putrido”, morto, in decomposizione, fatto del nostro guardare pagliuzze degli altri. Quelle sono le opere della carne, “Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere”. Ben note, dice Paolo, e dopo duemila anni non è cambiato granché.

Cosa fare, se il mio albero produce frutti cattivi? Mi metto a fare frutti finti, come la buonissima frutta martorana con pasta di mandorle che si fa in Sicilia? Dolci squisiti, ma non sono frutti veri, anche se molto simili. Provo a mettere maschere per fingere buonismo? Non andremmo lontani. Allora la prima cosa da fare è contemplarsi, rivolgere uno sguardo su noi stessi, uno sguardo di verità. Accogliere il nostro limite, riconoscerlo. Riconoscerci bisognosi della misericordia di Dio, nel nostro limite. Lui non esiterà a venirci incontro, non vede l’ora! Il luogo del mio male, il fiume Giordano dove i peccatori si fanno battezzare, è l’acqua dove posso incontrare Cristo nel silenzio. Riconoscermi albero cattivo mi consente di ricevere l’immenso dono della grazia, che poi io posso restituire nella gratuità ai fratelli vicini.

“L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene”, sembra quasi mettere in guardia dalla frutta martorana, dalla frutta di plastica. Nessuno di noi può mentire al proprio cuore, anche se all’esterno possiamo dare una bella impressione, dire cose belle, essere amabili e simpatici. Ciascuno di noi sa adesso se è un sepolcro imbiancato, o se è autentico. Ciascuno di noi conosce il proprio cuore. Il principio del bene e del male si trova nel nostro cuore, inutile cercare alibi e pensare che ci siano nel mondo cose impure. Il creato è opera di Dio, quindi è buono. È l’uso che ne facciamo che fa diventare bene o fa diventare male. Il cuore bello fa uscire il bene, il cuore putrido fa uscire morte.

“La sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”, si ritorna alla parola, che può essere fonte di vita o di morte. Come già detto più volte, tutto il primo pezzo del vangelo di Luca è una sorta di “logoterapia”, una guarigione attraverso la parola. Quella parola di cui le folle, in riva a quel lago, hanno tanta sete. La prima opera fondamentale del cuore è la parola. Tutti i nostri rapporti sono basati sulle parole. Tutta la nostra vita è regolata dalle nostre parole. Tutto il mondo è sempre guidato da parole, quanti leader hanno guidato con parole intere folle. Nel bene o nel male. Noi siamo chiamati, oggi, a pronunciare la parola bella.

In questo non giudicare, in questa ultima domenica prima del cammino quaresimale, tornano vivaci le parole di San Francesco rivolte a un ministro, nella stupenda lettera che in un passaggio dice: “E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori” (FF 234). Ringraziamo il Signore per il dono della sua sapienza, che ci insegna a vivere una vita bella, oggi, e nella sua misericordia ci apre una porta di speranza. Preghiamo affinché convertiamo il nostro sguardo dalla pagliuzza del fratello alla nostra miseria. Vi auguriamo di cuore una buona domenica.

Laudato si’!