Crocifissione, Giotto e collaboratori,1308-1310 basilica inferiore di Assisi

Venerdì 15 aprile
VENERDÌ SANTO – ANNO C
Lc 23,33-48

Siamo nel culmine della storia di salvezza, con la liturgia del triduo pasquale. Vi invitiamo a rallentare, a dedicare il tempo per approfondire e pregare su questi versetti della Parola. La lettura dei brani di Luca di questi giorni solenni è focalizzata sulla collocazione dei fatti, immersi nel creato. Un orto, un monte e un giardino. Oggi ci troviamo nel monte di Golgota, luogo di tortura e di morte. Ci troviamo davanti al racconto più importante di tutto il vangelo di Luca, che in questi mesi abbiamo provato a comprendere nel suo sviluppo: nella prima parte emerge il medico, la cura attraverso la parola fino al racconto della trasfigurazione; poi la ricerca del volto. Qui, oggi, in questo monte fuori Gerusalemme, abbiamo l’opportunità di incontrare questo volto di Dio. La prima parte del vangelo ci invita ad ascoltare, la seconda a vedere. Ascoltare, vedere, per agire nella preghiera. Ieri, nell’orto, Gesù ci ha insegnato come pregare. Tutto il vangelo della passione, e in particolare questo su cui concentriamo oggi lo sguardo, è una ottima occasione di preghiera: è una θεωρέω (= theoria), uno “spettacolo” come viene definito al termine di questo brano, che tutti sono venuti a vedere. L’unica volta, in tutto il Nuovo Testamento, in cui viene usata questa parola, per indicare che qui abbiamo una visione di Dio. Contemplare questo testo è come pregare, è come vedere Dio faccia a faccia.

Per questo “raccontare” oggi è impresa impossibile, suggeriremo solo alcuni spunti, con l’invito a tutti voi di rallentare, quasi di frenare oggi e soffermare la sguardo su ogni singolo versetto. Ogni passaggio meriterebbe un giorno, una settimana di meditazione silenziosa. In ogni versetto, qui, troviamo spiegazione di tutta la Scrittura, dei profeti, della legge, delle lettere di Paolo, dell’apocalisse, la patristica, la teologia medievale, il magistero della chiesa, la Laudato Si’. Troviamo il senso di un vangelo, quello di Luca, scritto da chi non ha incontrato direttamente Gesù, ma “ha messo ordine ai racconti” indirizzandoli a Teofilo, alla terza generazione dei cristiani, che in fondo siamo tutti noi: nessuno di noi ha conosciuto direttamente Gesù, né ha conosciuto chi lo ha incontrato in vita. Noi dobbiamo fidarci dei racconti ordinati, qui incontreremo i due più grandi teologi del vangelo, un malfattore – l’unico che chiamerà Gesù con l’espressione “Dio” – e un carnefice. Qui incontriamo il creato che ci parla di questa morte, il cielo che si oscura, il velo del tempio – fatto di mani d’uomo – che si squarcia. Chi vengono evangelizzati per primi, contemplando il crocifisso e il creato che parla, sono un malfattore e un centurione: scompare Pietro e i discepoli, scompaiono testimoni oculari e loro amici, e Luca mette al centro del messaggio ognuno di noi, con i nostri limiti e i nostri peccati, e il male che noi stessi portiamo nel mondo. Sta a noi scegliere di fissare il nostro sguardo sulla gloria di Dio, che si manifesta oggi in questo corpo lacerato che pende dalla croce, come fanno il malfattore e il centurione, ed essere salvati; oppure fare come i sommi sacerdoti, i farisei e la folla, che se ne prendono beffe, ma che sono comunque salvati per la misericordia di Dio, unica vera, grande protagonista di tutto il vangelo di Luca.

“Quando giunsero al luogo detto Cranio”, così come ieri si entrava in un orto definito “luogo”, anche oggi si giunge a un “luogo”. In Luca questo è un aspetto importante, perché l’unico luogo nella tradizione è il tempio, spazio di preghiera e di dialogo con Dio, tutto il resto è un non-luogo. Si tratta di un monte, Dio si manifesta al mondo nel creato, non solo in un tempio fatto da mani d’uomo. Anzi, di più, si manifesta fuori dalla porta della città, sul monte delle esecuzioni capitali, spettacolo per chi doveva imparare la giustizia degli uomini. 

E “là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra”. La croce è l’albero che svetta su questo monte, ci ricorda l’albero della vita rifiutato da Adamo, il cui teschio viene rappresentato spesso ai piedi della croce. Gesù sale su questo albero di morte per irrigare con il suo sangue questo teschio, che in fondo è la morte di ognuno di noi, per donare vita. E in questa azione di gloria, sono presenti due delinquenti nei posti ansiosamente desiderati da Giacomo e Giovanni, che volevano stare appunto “uno a destra e l’altro a sinistra”. Quanto dobbiamo imparare a pregare! Gesù in mezzo, tra le nostre miserie, in solidarietà a tutta l’umanità rappresentata a destra e a sinistra: chi è malfattore, e chi è convinto di non esserlo. Chi è fratello maggiore, e chi è fratello minore, entrambi figli di un padre misericordioso che vive in attesa.

Gesù è quel padre misericordioso, che urla: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Questo il giudizio, sul monte della Giustizia fuori dalle mura della città: Gesù chiede perdono! Gesù che aveva detto “non giudicate”, “perdonate”, “siate misericordiosi come il padre”, “amate i vostri nemici”. Dio ha solo figli, non può avere nemici. Questo il giudizio, la salvezza: rispondere al male con il bene. Noi uomini, come i terroristi galilei uccisi da Pilato, vorremmo rispondere al male con il male, alla guerra con la guerra, al peccato con la punizione dell’inferno. La “bella notizia” del vangelo è questa: Dio non è venuto per giustiziare nessuno, ma siamo noi a condannarci a vicenda illusi e confusi da immagini sbagliate di Dio. Questo non vuol dire giustificare il male, la croce resta il male supremo. Ma Dio si colloca, rispetto al male, in una posizione molto diversa dagli uomini. “Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte”. Questa immagine di Dio ci sconvolge tutti, ogni giorno, sia che siamo “popolo”, sia che siamo “religiosi”, sia che siamo “potere”.

Crocifisso di Santa Croce, Cimabue, 1272-1280, basilica di Santa Croce a Firenze

Infatti “il popolo stava a vedere”, in Luca non c’è un giudizio negativo della folla, che sembra quasi contemplare, anche se a distanza. Quasi un vedere distaccato, come facciamo spesso noi, nell’indifferenza, quando sfogliamo pagine di giornali che raccontano immense tragedie lontane da casa nostra.

Invece “i capi lo schernivano dicendo: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto»”. Vedere e schernire. Noi tutti, popolo o religiosi che aiutiamo in parrocchia, in fondo non lo capiamo un Dio così, che non mostra il suo potere, che non ascolta le nostre giuste preghiere. “Salvare se stessi” è la più grande pretesa di egoismo, personale e collettivo, ognuno in fondo, anzitutto, vuole salvare se stesso, la propria famiglia, la propria città, la propria nazione dall’invasione nemica, la propria religione più giusta dell’altra. Ma salvare da cosa? Viviamo tutti con il terrore della morte, che prima o poi arriverà. Per fortuna che Dio non salva se stesso, sarebbe il supremo male che annienta tutti gli altri “mali minori”.

E anche i rappresentanti del potere, “anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso»”. Stessa domanda, “salva te stesso”, ciò che in fondo fa un Re, il vertice di un potere fondato sull’egoismo. In caso di attacco, il primo a proteggersi è il re. Che re può essere, uno che non salva se stesso? Gli offrono aceto, vino andato a male, vita serie B, per prenderlo in giro pio sulla tentazione del deserto, la tentazione del potere “se mi adorerai, tutto sarà tuo”. Si compie questa offesa con “una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei”.

Francisco de Zurbarán, Crocifisso, 1627, Chicago, Art Institute

Quanto abbiamo, noi cristiani e cittadini del mondo, da imparare da questa immagine profetica! Quando comprendiamo che la vera politica non è occupare posizioni di potere da difendere con le crociate e con i partiti, ma mettere al primo posto l’ultimo degli ultimi, ascoltare veramente il grido del povero e della terra, allora veramente possiamo sperare in un mondo migliore. Quanto è importante che i cristiani si impegnino per una politica profetica! Se il nostro re è Gesù crocifisso, allora veramente c’è speranza. E’ una speranza certa, perché insieme a un mondo fatto da una minoranza di re che alimentano guerre, soprusi, corruzione, nella storia l’uomo ha conosciuto i diritti umani, la solidarietà, l’ecologia integrale, costruita da tantissimi re che scelgono, in silenzio e ogni giorno, di mettersi al servizio degli altri.

“Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!»”. Si tratta, probabilmente, dei due complici di Barabba, arrestati con lui per sommossa. E sono due, come spesso avviene in Luca, per esprimere due punti di vista che coesistono nella nostra umanità. Il primo bestemmia, dicendo “E’ certo che tu sei il Cristo!”, ed è come se volesse dire: “Io ho combattuto giustamente contro i romani, e adesso sto subendo una condanna ingiusta inflitta dall’oppressore”. Ha provato a sconfiggere il male con le armi del male. E’ un po’ “meno egoista”, ha un valore comune, un onore, chiede di salvare “anche noi”.

“Ma l’altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena?” Compare il “buon ladrone”, in accordo con tutta la dolcezza del testo di Luca rispetto agli altri vangeli. E’ la prima volta, nel vangelo, che un uomo chiama Gesù con il titolo di Dio, nessuno prima di lui si era spinto così oltre, né Pietro, né i demoni. Come mai lo riesce a capire solo lui? Perché si trova dentro una prova, perché riconosce di essere peccatore, quando dice: “Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni”, e perché si trova a stretto contatto con una ingiustificabile assurdità: “egli invece non ha fatto nulla di male”. Perché allora Dio è lì? Solo per stare con me, per darmi dignità nel mio limite, perché l’amore è più forte pure della morte. In questo il malfattore capisce che è Dio. 

In questo dialogo drammatico risiede una grandissima speranza. Anche nell’ora più buia, nell’ora della morte, Dio è Emmanuel, è con noi, Gesù può dire: “oggi sarai con me nel paradiso”, può usare il futuro quando per le nostre categorie tutto è finito. C’è un regno di verità da abitare, la morte non ci dice l’ultima parola. La morte se nella solitudine è una tragedia, ma se è nella compagnia di Cristo diventa “sora nostra morte corporale”. Nostra, di tutto il genere umano, senza il terrore di arrivarci, ma con la consapevolezza che tutta la vita è un dono. C’è un “parades” da abitare, un giardino, il creato, ciò che noi uomini abbiamo rifiutato in origine, la felicità di sentirci creature. In questo dialogo, in questo venerdì santo, ognuno di noi ha una opportunità per dare gusto alla propria vita!

Pietro Perugino, Crocifissione, 1482 ca, Washington, National Gallery of Art

“Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio”. Il creato ci parla. Ogni giorno. Ma oggi tutto assume un significato particolare, ci troviamo in una notte che inizia nell’orto del frantoio di Gerusalemme, che è stata scandita dai processi e dagli oltraggi, dalla confusione della via, dal monte del Cranio. Apparentemente siamo nell’ora sesta, l’ora in cui il sole si trova nel punto più alto, l’ora di maggiore luce, ma anche l’ora della disubbidienza di Adamo. Il peccato come momento in cui la creazione si stacca dal Creatore, e infatti Adamo si nasconde. La tenebra si nasconde alla luce più forte. Sul monte di Golgota avviene la fine del mondo. Finisce il mondo del peccato. Non dobbiamo attendere un’altra fine del mondo, nei Vangeli è già descritta qui, con questa eclissi.

Inizia un nuovo mondo, una nuova creazione, “il velo del tempio si squarciò nel mezzo”. Si squarcia il velo che nascondeva il Santo dei Santi, Dio “si svela”, mostra il suo volto. Si rompono le acque, è un parto doloroso, nasce il Figlio, che “gridando a gran voce, disse: «Padre”. Una nascita nel dolore e nel peccato del mondo. Siamo convinti, con le nostre categorie mentali, che assistiamo a una scena di morte, è invece si tratta di una nascita.

“«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo spirò”. Non dedichiamo un minuto di silenzio, vi invitiamo a dedicare oggi, mentre leggete questa riflessione, dieci minuti di silenzio. Un’ora di silenzio, contemplando questa theoria, questo “spettacolo”, con il tempo che merita.

Dedichiamo il silenzio davanti a questa immagine.

Diego Velázquez, Cristo in croce, 1631, Madrid, Museo del Prado

Spirò. Pure Dio è spirato. La vita è inspirare e espirare. Avere il terrore della morte equivale a essere insaziabili, spesso noi vogliamo solo inspirare anche al punto di scoppiare. Teniamo per noi le risorse del pianeta, le relazioni, il benessere, la nostra stessa vita, nel terrore di perdere. Dio, che ha creato tutto con una azione di kenosis, spogliandosi della sua infinità per lasciare spazio alle cose finite, adesso nella spogliazione della croce ci dona una nuova creazione. Una nuova nascita. Senza veli, Dio si rivela a noi. Spirando.

Il brano si chiude, specularmente a come si è aperto, con le categorie che assistevano a questo spettacolo: il potere, simboleggiato dal centurione, e le folle, cioè il popolo. Nel racconto scompaiono i religiosi dell’epoca, la loro presenza si è persa dentro gli eventi di questa nuova creazione.

“Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: «Veramente quest’uomo era giusto»”. Luca ci tiene a evidenziare non solo che Gesù è il figlio di Dio, ma che è un giusto. Insieme al malfattore, il boia è l’unico nella scena che pronuncia una professione di fede. Una frase che nasce dall’osservazione e dalla contemplazione di questa croce. Lo dice lui, che di mestiere esercitava il potere e la morte. Siamo noi gli aguzzini di Dio, e nonostante tutto siamo noi che possiamo riconoscerlo nel volto di chi soffre. In questo modo Luca parla ai primi cristiani, quelli della generazione di Teofilo, che nonostante la loro fede vivono persecuzioni e difficoltà. Anche dentro quel dolore, si può scorgere il volto di Dio.

“Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto”. In quelle folle, che osservano “questo spettacolo”, questa theoria (θεωρέω) ci siamo proprio tutti noi, popoli che ritorna. Prima si fugge dalla morte, poi dopo aver visto questi fatti, si ritorna a casa battendosi il petto, riconoscendo le proprie colpe. Per gli ebrei, questo תשובה‎ (= Teshuvah), letteralmente “ritorno a casa”, ha proprio il sapore del pentimento e della conversione. Dopo aver contemplato il volto di Dio, l’uomo non può che convertirsi. E visto che la manifestazione avvenuta sul monte di Golgota oggi è anche cosmica, con il sole oscurato e il velo del tempio squarciato, possiamo anche dire che si tratti di una conversione ecologica. 

San Francesco, nella stupenda parafrasi al Padre nostro, ci ricorda che: “E non ci indurre in tentazione: nascosta o manifesta, improvvisa o insistente. Ma liberaci dal male: passato, presente e futuro.” (FF 274). Ringraziamo il Signore per il dono immenso della sua vita per noi, e per averci insegnato che una via alternativa al male si può percorrere. Preghiamo in questo giorno di silenzio affinché questa nuova creazione possa essere per noi un seme di conversione. 

Laudato si’!

Crocifisso San Damiano, ignoto, XII secolo, Basilica Santa Chiara, Assisi