(Foto di Nuno Campos da Pexels)

Domenica 23 marzo 2025
III DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C
Commento al Vangelo della domenica
Lc 13,1-9

Oggi viviamo insieme la terza tappa del cammino quaresimale, con un vangelo che ci interpella sempre: che senso ha il male nel mondo? Che risposta ha Dio di fronte alla sofferenza? Siamo nel capitolo 13 di Luca, subito dopo aver visto in Gesù il desiderio di spirito e fuoco, per dare risposta al male nel mondo, acqua e morte, di cui prova angoscia. La Sacra Scrittura insiste sempre sulla connessione tra il male del mondo e la nostra distanza da Dio, fin dai primi versetti della Genesi.

Adamo rifiuta il rapporto con Dio, il rapporto verticale, e si ritrova nudo, sperimentando la lacerazione di sé, con la donna, con i figli e con la società violenta. La morte, nel nostro modo di vedere allontanato da Dio, viene sempre vista come un male. Gesù, nel vangelo di oggi, cerca di farci capire la corretta visione delle cose, che Francesco aveva perfettamente incarnato quando cantava: “Laudato si’ mi Signore per sora nostra morte corporale”. Il male, se ci pensiamo bene, non è tanto la morte, ma più la paura di morire, specie quando la nostra superbia ci fa dimenticare la nostra dimensione di creature, che nascono e che, già si sa, sono destinate anche a morire.

Si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici” è il racconto di un fatto di cronaca come ogni giorno. Pilato, per gli ebrei, è il simbolo dell’oppressore romano, che fa il male e in più è sacrilego verso le usanze. Ha ragione l’oppressore, o hanno ragione gli oppositori, anche se terroristi? Pochi versetti prima, al capitolo 12, Gesù aveva chiesto “pensate che io sia venuto a portare la pace nel mondo?” spiazzando il nostro sentire comune sul tema della pace. Cos’è la pace? All’epoca di Gesù, e Pilato ne è un emblema, c’era la pax romana, che veniva imposta attraverso il dominio e la guerra. La stessa pace che contraddistingue tutta la nostra storia, anche attuale, nelle tante, troppe guerre più o meno dimenticate.

Alla richiesta di prendere posizione tra il cattivo oppressore romano e i buoni terroristi galilei, Gesù risponde con una domanda. “Credete che quei Galilei fossero più peccatori?” spiazza il nostro punto di vista, perché nel ragionamento di Gesù scompaiono i romani. Noi tutti in fondo siamo un po’ galilei, e come quei galilei siamo esattamente come i romani, che cercavano di sopraffare l’altro con la violenza. La risposta/domanda di Gesù spiazza proprio quei farisei che lo mettono alla prova, e ha la sua coerenza nella croce: Cristo morirà rifiutando fino all’estremo la logica della violenza, e verrà ucciso proprio da quei farisei, alleati nella stessa logica con i romani, che potevano eseguire condanne a morte, con i sadducei, con gli erodiani. “O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise” ci racconta di un terremoto, quelle diciotto persone erano variamente buone e cattive, non erano lì per esercitare violenza. Cosa vuole dirci allora Gesù? Che la morte è nella nostra natura, sia che ci intestardiamo a fare del male, sia che ci troviamo casualmente sotto una torre. Il male forse sta prima di quell’evento, nell’avere la paura della morte.

Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero” sembrano essere le parole di ciascuno di noi, quando esauriamo la pazienza di aspettare i fratelli e le sorelle. Dio è solo bene, soprattutto in Luca. Dio non vuole esercitare la giustizia, ma la misericordia. Per spiegarlo, come spesso capita, Gesù prende in prestito immagini del creato, la vigna e il fico. La vigna è simbolo di Israele, della terra promessa, che prima viene conquistata, poi preparata, poi coltivata, poi raccolta nei suoi frutti che vengono lavorati dall’uomo. La fine di tutto questo processo è il vino, segno dell’amore di Dio. “Venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò” per noi generazione lontana dai campi dice poco, ma per chi viveva nella campagna è un’immagine molto eloquente. Il fico, dentro la vigna, è proprio il popolo, che è chiamato sempre a produrre frutti, proprio come questo particolare tipo di albero che quasi non conosce stagioni. Per giunta i fichi che rimangono sui rami anche “oltre stagione”, che tendono a seccare, sono segno di questa continua produzione. L’espressione “non c’è neppure un fico secco” dice proprio questo!

Sono tre anni che vengo a cercare frutti”, i tre anni del ministero di Gesù che non viene ascoltato dai suoi discepoli, non viene capito dagli scribi, dai farisei, dai suoi stessi fratelli. E allora, che fare? Ascoltare il Battista, per il quale già la scure era pronta alla radice per tagliare chi non porta frutto? Si potrebbe agire secondo giustizia, non è giusto che un albero che non produce frutto debba nutrirsi delle risorse della terra. Alla giustizia risponde la misericordia. “Padrone, lascialo ancora quest’anno” è l’affermazione della misericordia di fronte alla giustizia incontestabile. La misericordia è umile, chiama l’altro “padrone”, e concede ancora all’albero la libertà di esprimersi, di fare frutto. Lo concede offrendo il suo lavoro, “gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime” e aspetterà per un anno. Il verbo “lascialo” indica quasi “perdonalo”, concedi un altro anno. Non sappiamo come finisce la storia, come molti passaggi di Luca il finale rimane sospeso, la misericordia è una scommessa che Dio fa con noi, molto diversa dalla giustizia che si pronuncia in maniera definitiva.

Al male nel mondo e alla difficoltà che abbiamo a portare frutto, sembrano echeggiare le parole di Santa Chiara sul tema della veglia: “Sii sempre attenta e vigile nella preghiera. Porta alla sua consumazione il bene che hai incominciato, e adempi il mistero che hai abbracciato in santa povertà e in umiltà sincera” (FF 2916).

Vi auguriamo di cuore una buona domenica.

Laudato Si’!