Domenica 27 marzo
IV DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C
Lc 15,1-3.11-32

Ritorno del figliol prodigo (Rembrandt), 1668 Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

Siamo alla quarta domenica di Quaresima, e nel cammino di conversione ci ritroviamo oggi di fronte al dilemma della settimana scorsa davanti al fico: quale delle due ancelle ascoltare? La voce di Giustizia, o la voce di Misericordia? Il vangelo di oggi si colloca, nel testo di Luca, al capitolo 15, nel cuore del discorso sulla misericordia con le immagini che hanno reso tutto il libro come il vangelo della misericordia per eccellenza. Il brano di oggi salta le prime due immagini che usa Gesù per descrivere il Padre nella relazione con noi, cioè la pecora smarrita e la dracma perduta, e si concentra sul celebre racconto del figliol prodigo, o meglio il racconto del padre misericordioso. Questo racconto è indirizzato a scribi e farisei che borbottano, vedendo Gesù circondato da peccatori e pubblicani che ascoltano il suo insegnamento. Un insegnamento duro, pochi versetti prima si era rivolto ai suoi discepoli con parole difficili, dicendo loro che per seguirlo devono abbandonare tutto, la famiglia, odiare i parenti, prendere solo la croce e seguirlo. Sembra strano come, nel momento in cui Cristo è esigente con i suoi discepoli, i suoi migliori seguaci diventino proprio i peggiori peccatori!

Il pubblicano, il peccatore, è colui che non ha proprio nulla di giusto, e che riceve solo il giudizio del mondo. Possiamo dire che i peccatori sono coloro che hanno già lasciato tutto, che sono odiati dai parenti, e che hanno bisogno di tutto, ma soprattutto hanno bisogno di misericordia. Questo affascina i peccatori e scandalizza chi si ritiene già giusto, scribi e farisei, perché Gesù sembra dire una parola nuova, una parola di misericordia. Il primo passo per salvarsi e riconoscersi bisognosi della misericordia di Dio. Se non ci sentiamo neppure peccatori, ma abbiamo l’illusione di essere giusti e con l’aureola, allora non potremo mai ricevere da Dio questo dono immenso.

E quindi, il paradosso più strano di questo brano così celebre è che i destinatari sono proprio gli scribi e i farisei, siamo tutti noi quando siamo particolarmente impegnati nella missione della chiesa, e corriamo il rischio di sentirci già santi, già giusti. Il rischio che corriamo è la mancanza di umiltà, e quindi ci dimentichiamo di sentirci bisognosi della misericordia di Dio, proprio come invece avviene ai peccatori conclamati, agli odiatissimi pubblicani che si arricchivano intascando ingiustamente le tasse per conto degli oppressori romani. Tutti i pubblicani andavano da Gesù, proprio tutti. Ed è curioso vedere come i due termini, avvicinarsi (in greco προσχωρέω) e brontolare (τονθορύζω) nella lingua di Luca hanno quasi lo stesso suono, come se qualcosa di intangibile accomunasse già allora i farisei con i peccatori, senza che riuscire ad averne coscienza. Gesù mangia con i peccatori, condivide il pasto, fa festa, è come uno di famiglia. Questo, per i farisei è inammissibile, e la parabola che racconterà Gesù ci illustrerà proprio una festa, e come avere l’animo giusto per festeggiare o rimanere fuori dalla porta a brontolare.

Come avvenuto domenica scorsa davanti all’albero di fico, anche oggi assistiamo un po’ al dialogo tra queste due ancelle, Giustizia e Misericordia. Come possono dialogare questi due punti di vista della nostra vita? Per spiegarlo Gesù si serve di un racconto stupendo, forse la parabola più conosciuta di tutto il vangelo. Oggi la chiesa ci propone solo la terza parte della parabola, fatta di tre scene differenti: la prima che racconta di un pastore sciagurato, che abbandona novantanove pecore per cercare l’unica perduta; la seconda ambientata in una casa, con una donna che mette a soqquadro la casa pur di trovare la moneta, la dracma, che rappresenta un giorno di lavoro. Entrambe le scene terminano con una grande festa, quasi in risposta ai farisei brontoloni che non accettavano un messia a tavola con peccatori.

Foto di Victoria Borodinova da Pexels

Il tema di oggi è la conversione. Apparentemente possiamo dire che il racconto del figlio minore è la storia di conversione, di chi nel bisogno si riconosce peccatore, e prende il coraggio di cambiare strada e tornare dal padre. Una favola bellissima e quasi strappalacrime! Ma se leggiamo con più attenzione, il tema centrale, indirizzato a noi farisei che ci riteniamo già santi, è la conversione dalla giustizia alla misericordia. Ecco perché il dialogo tra queste due ancelle che si guardano in faccia, qui assume un valore ancora più forte. La conversione più difficile è quella del fratello maggiore, che rispetto all’ingiustizia di un fratello che ha divorato tutti i beni trova invece la gioia di fare festa. Una gioia alimentata solo dalla misericordia.

Alla base, i due fratelli hanno in comune una immagine del padre: come un aguzzino che limita la loro libertà e la loro gioia. Il minore decide di scappare, il maggiore continua a vivere insieme, ma da schiavo. Non c’è tanta differenza tra i due. E’ un po’ l’immagine che spesso noi abbiamo di Dio e della chiesa, una serie di cose “da fare”, obblighi da onorare, messe, gruppi in parrocchia, eventi lunghissimi. Senza gioia. 

In questo stupendo racconto, la parola “padre” compare ben dodici volte: tutti lo chiamano “padre”, il cronista, il figlio minore, gli schiavi, ma solo uno non lo nomina “padre”, cioè il figlio maggiore. La figura drammatica di questo racconto è proprio il figlio buono, il maggiore, che non riesce neppure a dire la parola “fratello”, definendolo piuttosto “questo tuo figlio”. E’ un problema di relazioni, chi sbaglia non è nella mia relazione, ma è colpa tua, non lo hai educato bene, io sono già giusto, ho fatto tutto quello che mi hai chiesto. Quante volte facciamo questo errore terribile!

“Un uomo aveva due figli”, viene definito “uomo” perché nessuno dei due lo vuole come padre. Uno vuole scappare, l’altro forse non vede l’ora che muoia per prendersi tutte le proprietà, e per questo scopo obbedisce a tutto controvoglia. In questi due figli c’è tutta l’umanità, chi scappa da Dio e chi lo segue controvoglia. Dei due figli, l’unico che lo chiama “padre” è il minore quando chiede: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Qual è la parte che mi spetta? Se venisse mio figlio Emanuele a chiedermi la sua parte, cosa darei? Solitamente noi già condanniamo il figlio minore qui, perché non è giusto che richieda tutto e abbandoni il padre. Questa ancella, la Giustizia! Invece, a pensarci bene, la richiesta del figlio minore è giustissima: lui chiede ciò che ha il padre, cioè la libertà, la gioia, la pienezza dei suoi beni. Il figlio è affascinato, giovane e inesperiente, ma chiede una vita piena.

“Ed egli divise tra loro le sue sostanze”, letteralmente “divise la sua vita”, voleva in fondo che anche il maggiore se ne andasse a vivere la sua vita. Non lo ha obbligato a servirlo, non voleva questo. Dio non vuole questo da noi. Il padre rispetta gli errori di entrambi i figli. Il minore “partì per un paese lontano”, come noi che spesso ci illudiamo che lontano da Dio ci sia la vera libertà, e tutto ciò che possiamo vivere e invece viene oppresso dal padre. E invece dopo aver sperperato tutto, aver creato un vuoto interiore, addirittura “avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla”, sperimenta la solitudine più assoluta. La totale mancanza di relazioni, nel luogo lontano dove sognava la felicità.

Ed ecco la prima conversione, che nasce dal guardarsi e dal ricordo, quando “ritornò in sé”. Il creato è un ottimo interlocutore, contemplare, a modo suo, gli altri esseri viventi, per giunta i porci, che secoli dopo aiutarono San Francesco in una sua celebre catechesi a Roma. Ma è un ricordo ancora distorto: il suo punto di riferimento sono i salariati, che mangiano in abbondanza. Il suo tornare in sé è dettato dalla fame. Questo non porta alla conversione vera, ma solo a scelte di convenienza. Infatti, nel tornare, il suo obiettivo non è “essere figlio”, non si ritiene più neppure degno, ma è mangiare. La mentalità è ancora quella del figlio maggiore, che spera nell’eredità. Questo passaggio ci lascia una domanda drammatica: cosa deve fare una persona per meritare di essere figlio? Domanda terribile, se ci pensiamo.

“Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. Tutte azioni prettamente femminili, tipiche di una mamma, che ha compassione (letteralmente in greco “si muovono le viscere” come nel parto), abbraccia il figlio, lo bacia. Quale padre, specie all’epoca di Gesù, faceva così? Questo padre, come nel quadro di Rembrandt, ha due mani diverse: una maschile e l’altra femminile, è un po’ padre, ma anche un po’ madre. Lo abbraccia nel creato, nel luogo privilegiato da Dio, fuori da casa. Lo “strabaciò”, lo riempì di baci, ma non è giusto tutto ciò! E’ come quel pastore pazzo che lascia novantanove pecore, non si fa così! Che senso ha tutto ciò? Non lo rimprovera neppure, non gli fa la morale. Nulla. Non vuole neppure ascoltare il discorsetto che si era preparato il figlio per chiedere scusa, non vuole che pure lui, come i suoi schiavi, passi il tempo ad aver paura e ad odiarlo. Lui è un figlio!

Foto di Quang Nguyen Vinh da Pexels

Qui cambia completamente il registro. Si rivolge ai buoni, non ai cattivi. Tutto il vangelo di Luca cerca di parlare ai presunti buoni, a noi che ci sentiamo già con l’aureola. Addirittura lui è morto per i buoni, non solo per i peccatori, proprio per mostrarci questo volto del Padre. Un padre che dice: “Presto, portate qui il vestito più bello”, è ora di cambiare veste alla vita, la veste rifiutata da Adamo, creato a immagine e somiglianza, creato figlio! Come se il padre chiedesse al figlio “torna a essere figlio, non schiavo!” E poi “mettetegli l’anello al dito”, cioè il sigillo, il patto definitivo, l’accordo firmato, e “i sandali ai piedi”, perché è un uomo libero, solo gli schiavi andavano scalzi, tale si sentiva il figlio minore. Ma non solo, chiede “Prendete il vitello grasso”, letteralmente in greco sarebbe “il vitello di grano”, preludio al banchetto eucaristico, in cui si fa festa non perché il peccatore si pente, ma perché il figlio capisce di essere tale. Questa la gioia immensa di Dio!

Mentre si sente il chiasso della festa, il racconto di Luca si concentra sul fratello maggiore, il più vecchio, il “presbitero”. Egli “si trovava nei campi”, anche lui nel creato, ma non per contemplarlo. E’ lì a sudare con il suo lavoro quotidiano, a ubbidire alla legge: 613 precetti, di cui 365 negativi, un divieto al giorno, 248 precetti positivi quanto le ossa del corpo, cioè fin nelle ossa e nel nostro intimo dobbiamo osservare la legge di Dio. Ecco, il fratello buono è lì a ubbidire, chino sui campi del padre. Immaginiamo il sentimento di stupore quando “udì la musica e le danze”, non ci si aspetta da un Dio giudice severo che dedichi tempo alla festa. Cosa sarà successo? Si informa da un servo, che è l’unico che comprende tutta la verità e fissa le giuste relazioni, dicendo: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto…”. In tutto il racconto è l’unico che cita la giusta parentela. Alla gioia del padre, si contrappone il figlio presbitero che “si indignò” perché non è giusto fare festa per chi ha dilapidato le proprietà in piaceri e lontano da Dio! Questa cara ancella, la Giustizia, che spesso non ci fa stare felici!

Non è giusto: solo io che ubbidisco, merito di essere amato! “Meritare” ha sempre qualche assonanza con “meretrice”, colei che vende il suo amore. L’amore non si può comprare, sennò lo confondiamo con la prostituzione. L’amore è veramente gratuito, e Dio con questa parabola, con la sua croce, e con l’eucaristia che ci dona ogni giorno, ce lo dimostra sempre. Il fratello più grande, poiché frustrato, è ancora più infelice, e “non voleva entrare” a far festa. A differenza del minore, il presbitero costringe il padre a “uscire” e “supplicarlo”, per non farlo sentire solo mentre tutti festeggiano. Pensate al dramma di questo padre, che si perde la festa per consolare il figlio che non vuole partecipare, mentre tutti cantano e danzano.

Alla consolazione del padre, il figlio arrabbiato risponde: “Ecco, io ti servo da tanti anni…” ho rinunciato alla mia vita per te, e tu cosa fai? Per me neppure un capretto! L’errore non è sbagliare, ma illudersi che Dio non ci voglia felici. Infatti il padre, nella sua risposta, dice subito: “Figlio” in greco usa il termine τέκνον (letteralmente “generato da me” perché non c’è il termine “figlio”), nel senso che non è qualcosa che si può scegliere o meno, e neppure interrompere come relazione. Quello che non capiamo, che non capisce neppure Pietro, non lo capiranno i discepoli di Emmaus, quando Gesù ripete quel verbo “bisognava” riferito alla festa come alla croce, qualcosa di cui c’è quasi necessità per vivere in maniera compiuta. A quel “bisognava” noi rispondiamo sempre con la ribellione, non comprendiamo cosa sia l’ubbidienza.

Non c’è il lieto fine, in questa storia. Non c’è un finale drammatico. Non sappiamo se il figlio maggiore sceglierà di festeggiare, o rimarrà fuori dalla porta. Il testo di Luca è stupendo proprio perché ci lascia questo finale sospeso, che forse sta a noi riempire con il nostro cuore. Certamente questa storia interroga ciascuno di noi, anche inconsciamente si parteggia per un fratello o per il padre, in base alla nostra idea di Giustizia e Misericordia, queste due ancelle che dialogano in tutti noi. Quanto sono vere le parole del Cantico delle Creature: “Laudato si’, mi Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore” (FF 263). Ringraziamo il Signore per il dono della sua misericordia, della sua festa, che dobbiamo imparare a vivere nonostante il nostro senso di giustizia. Preghiamo affinché questo tempo di quaresima sia l’occasione per vivere pienamente da figli, e non da schiavi. Vi auguriamo di cuore una buona domenica.

Laudato si’!