Domenica 3 aprile
V DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C
Gv 8,1-11

Guercino, “Cristo e l’adultera”, 1621, Olio su tela, 98 x 122 cm, Collezione privata

Siamo oggi alla quinta domenica di Quaresima, in questo cammino che ci sta svelando quest’anno, pian piano, il volto della misericordia di Dio attraverso i gesti e le parole di Gesù. Oggi siamo accompagnati dalle parole di Giovanni, che nel capitolo ottavo ci presenta, andando verso il monte degli ulivi, una scena nella quale ci troviamo tutti noi ogni giorno, pronti con le nostre pietre a giudicare chi sbaglia. E Gesù si trova sempre, nel silenzio, dentro al dialogo tra queste due ancelle che abbiamo imparato a conoscere da qualche domenica, da un lato Giustizia, dall’altro Misericordia.

Si tratta di un brano controverso nel vangelo giovanneo, assente in molti manoscritti antichi, non citato da molti padri della Chiesa, fatta eccezione per Ambrogio, Agostino e Gerolamo, e la patristica latina. Per S. Agostino, questo brano era stato tolto dal vangelo di Giovanni perché rischiava di lasciare l’impunità alle donne adultere. Più probabile, per lo stile e il linguaggio usati, che sia un testo di Luca, che a partire dal III secolo viene inserito nella tradizione evangelica. Restano in fondo solo ipotesi, ciò che conta è il messaggio che ci lascia, dentro un capitolo che si apre con i giudei che vogliono lapidare una donna, e che si chiude con i giudei che vogliono lapidare Gesù.

In questo brano si vede il rapporto tra Gesù e la legge. Perché Dio ha dato la legge? Per punire i peccati, per condannare l’uomo? Dio vuole condannare il male, non l’uomo che ne viene danneggiato, in polemica quindi con tutti noi che spesso ci sentiamo “custodi della legge” e delle norme, e viviamo tristi come il fratello maggiore di domenica scorsa. Il male, quindi, per noi può diventare un luogo di incontro con Dio, una grande opportunità per conoscere il Signore per quello che è.

“Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi” è una collocazione che ci riporta più al capitolo XXI del vangelo di Luca, quando di giorno insegnava nel tempio a Gerusalemme e di sera si rifugiava sul monte degli ulivi. Questo è uno dei dettagli che fa pensare a questo testo come proveniente da uno dei sinottici. Mentre insegna portando il suo esempio ai giudei, avviene che “gli scribi – cioè coloro che conoscono la legge – e i farisei – coloro che osservano la legge – gli condussero una donna sorpresa in adulterio”. La legge vista come giustizia, come mezzo per portare alla luce il peccato. Questa donna rappresenta un po’ tutti noi che non siamo fedeli ai comandamenti di Dio, e la legge per ciascuno di noi ha solo una soluzione: siamo da uccidere. La donna, il peccato, per noi scribi e farisei è sempre al centro.

“Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare…” come atto di giustizia comunitario, perché nella lapidazione tutti sono giustizieri allo stesso modo, a differenza del boia che uccide a nome di tutti. E’ un assassinio collettivo, una forma primitiva di giustizia nella quale tutti dovevano essere concordi. Se uno non era del parere comune, veniva a sua volta lapidato. Sorella nostra madre terra, con le sue pietre, diventava strumento di giudizio e di morte. Un mezzo per trovare, anticamente, un nemico comune da combattere, e rinsaldare i rapporti nella comunità. Quante volte attuiamo ancora oggi questo rito collettivo!

E’ chiaro che la domanda dei farisei e degli scribi è provocatoria, “dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo”, ulteriore prova che probabilmente questo brano appartiene al finale di Luca, a ridosso della narrazione della passione. I farisei hanno già ascoltato il messaggio di Gesù, e sanno bene che per lui non va lapidata. La tentazione è questa: se dice di lapidare la donna, allora contraddice il suo messaggio; se dice che non va lapidata, contraddice la legge di Mosè. In apparenza l’imputato è la donna, ma nella realtà il dito è puntato su Gesù. E cosa fa Gesù?

Foto di Alan Cabello da Pexels

“Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”, ecco il dialogo silenzioso tra Gesù e madre terra. Quella madre terra presa in mano dai farisei per uccidere, diventa la silenziosa compagna che dialoga con il Signore. Un gesto ripetuto due volte, così come due volte Gesù si alza. Per essere scritto due volte, nel testo, che Gesù scriveva per terra, deve essere molto importante sapere cosa scriveva, e che senso aveva questa gestualità. Ma cosa ha scritto per terra Gesù? Il testo di Giovanni è molto chiaro: Gesù non scrive nulla. Per S. Agostino, il gesto allude a Geremia che dice che “i nomi degli empi sono scritti come con il dito sulla sabbia e si disperdono”, affermando quindi che Gesù compie un gesto profetico. La sua profezia è senza parole. Come il “Laudato si” di San Francesco è senza parole! Quante volte le parole non fanno altro che complicare tutto!

Qui il silenzio aiuta Gesù a risolvere questo difficile problema posto dai farisei. E’ una pausa che aiuta tutti a una riflessione oggettiva. Scrivere a terra, nel pavimento del tempio, ci ricorda che oltre alle tavole della legge realizzate di pietra, bisogna considerare il dito di Dio che le ha scritte! A volte per noi la legge è solo rappresentata dalle tavole di pietra, e quelle pietre ci autorizzano quasi a uccidere con altre pietre. Gesù, nel silenzio, fa muovere il nostro sguardo dalle pietre al dito di Dio. Un dito di una mano che è misericordia, la mano che tiene la zappa intorno al fico pigro, la mano che abbraccia il figlio tornato dal paese lontano, la mano che supplica il figlio maggiore di entrare a far festa. 

Il silenzio di Dio, tante volte, ci fa innervosire più dei ceffoni che potrebbe darci. E allora insistiamo nello stuzzicare Dio: “poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò”, come gesto di pazienza e di dominio della situazione. Noi ci saremmo arrabbiati, forse avremmo reagito d’istinto con la nostra giustizia, ma Dio è veramente altro. Affermando: “«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra” l’evangelista ci mostra l’essenzialità del messaggio di Cristo. Non ha bisogno di sprecare parole, la sua autorevolezza gli consente di pesare pochissime parole e di fare centro.

Gesù invita ciascuno di noi a fare qualcosa di cui non siamo abituati: guardare dentro di noi. Piuttosto che sforzarsi di guardare lontano, altri pianeti o altri popoli o la pace nel mondo, cominciamo a guardare dentro noi stessi! Piuttosto che fare opere a fin di bene, volendo togliere le minuscole pagliuzze negli occhi degli altri, giudicando e guardando nel dettaglio i difetti dei fratelli, impariamo prima a togliere le travi che bucano i nostri occhi. Travi conficcate nella testa, che ci lasciano morti! Immaginiamo un uomo con una trave in testa, non può essere vivo! Togliendo la trave che è dentro di noi, imparando a guardare dentro di noi, è come se scegliamo di risorgere con Cristo dalla morte, e possiamo allora operare per gli altri il bene, e non “a fin di bene”.

E poi Gesù chiede a ognuno di noi il coraggio, altro amico di storie infantili che abbiamo smarrito nel cammino della vita. Perché a fare parte della massa è facile, molto più difficile è essere “il primo che lancia la pietra”. Per fare questo gesto, ci vuole coraggio. Chi lancia per primo è il responsabile. Tu ti senti responsabile della vita e della morte di questa sorella? Ti senti meglio di lei? Un invito, oggi, a sentirci, ciascuno di noi, responsabili per il nostro fratello e per il nostro pianeta. Gesù non è contro la legge, chiede solo di applicarla guardandosi prima dentro.

Il silenzio di Gesù disarma la massa, disarma la folla. Infatti erano arrivati tutti insieme, uniti contro il nemico comune, e adesso “se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”, quasi delusi, soprattutto gli anziani, i “presbiteri”. Questa parola non compare mai nel vangelo di Giovanni, fatta eccezione per questo brano, che forse, come detto, non è neppure di Giovanni! Il silenzio lascia nella scena da solo al centro Gesù e la donna. Prima era la donna, al centro. Ora, come dice S. Agostino, rimangono in due, “la misera e la misericordia”. 

Al termine della nostra vita cosa ci rimane? La giustizia? I cimiteri sono pieni di persone che all’incrocio avevano diritto di precedenza! Cosa ci rimane, se non la misericordia? Dopo il silenzio, si sente Gesù che chiede: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Donna, cioè “sposa”, una adultera che diventa la festeggiata delle nozze. E “nessuno”, senza nomi, senza titoli, senza cariche, senza “fariseo” o “presbitero”, senza autorità. Solo così si può dire “va’ e d’ora in poi non peccare più”, perché chi sperimenta il perdono non può più essere infelice, e il peccato nasce solo nella nostra infelicità. Gesù non vuole obbligare la donna a essere santa con l’aureola in testa, ma le augura la felicità ricordando che neppure lui, che è Dio, ha desiderio di condannarla! Quanto potrebbe diventare bella, la nostra vita, se prendiamo questa consapevolezza!

Nella stupenda parafrasi del Padre Nostro, San Francesco ci ricorda che: “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori: e quello che non sappiamo pienamente perdonare, tu, Signore, fa’ che pienamente perdoniamo, sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male, e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti” (FF 173). Ringraziamo il Signore per il dono della sua misericordia, del suo silenzio, che dobbiamo imparare a donare a noi stessi e ai nostri fratelli. Preghiamo affinché questo tempo di quaresima ci aiuti nelle nostre relazioni con i limiti e il peccato, imparando a scrivere con il dito di Dio. Vi auguriamo di cuore una buona domenica.

Laudato si’!

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