Giovedì 14 aprile
GIOVEDÌ SANTO – ANNO C
Lc 22,39-46

Entriamo oggi nel culmine della storia di salvezza, con la liturgia del triduo pasquale. Con il triduo pasquale concluderemo anche questo itinerario di approfondimento del Vangelo, letto con lo sguardo suggerito dal Laudato Si’ di San Francesco e dalla Laudato Si’ di Papa Francesco, in connessione con il creato. Vi invitiamo a rallentare, a dedicare il tempo per approfondire e pregare su questi versetti della Parola. Per questo, la lettura dei brani di Luca di questi giorni solenni sarà focalizzata sulla collocazione dei fatti, immersi nel creato. Un orto, un monte e un giardino. Questa sera ci troviamo nell’orto di Getsemani, in compagnia degli ulivi nell’ora della preghiera, dell’abbandono, dell’agonia di Gesù.

Getsemani, in ebraico “gat šemanîm” vuol dire “frantoio”, forse meglio “torchio”, luogo della spremitura delle olive. Il torchio nella tradizione ebraica richiama la vendetta di Dio, per esempio quando il profeta Isaia dice: “Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno, li ho calpestati con ira” (Is 63, 3). Oggi conosciamo meglio, in questo frantoio, cosa sia la vendetta di Dio attraverso l’esperienza di Gesù. Una narrazione, quella di Luca, che ci descrive un uomo profondamente umano, che soffre, che suda sangue, che piange, un Cristo patiens che grazie alla cultura francescana ci ha aiutati, secoli dopo, a uscire dall’immagine “gloriosa” della croce, quasi come se Dio non avesse neppure sofferto la passione, sapendo che sarebbe risorto. Invece Luca, e poi l’arte e la cultura che si sviluppano dal XIII secolo, ci tengono a raccontarci anche l’agonia, la sofferenza, il pianto di Dio di fronte alla prova.

Orazione nell’orto, Andrea Mantegna, 1455, National Gallery di Londra

Qui ritornano molti temi che abbiamo già visto, lungo il cammino della quaresima qualche settimana fa, nella scena della Trasfigurazione: il dialogo Padre-Figlio, la ricerca del volto, la compagnia dei tre apostoli, che non comprendono ciò che hanno davanti. Qui, quasi in contrasto con la luce del Tabor, in questo monte scendono le tenebre, è notte, e la narrazione di Luca racconta tutte le ore della notte, della cattura, del giudizio, del calvario, della solitudine, dell’eclissi in cui a mezzogiorno si fa buio su tutta la terra. Una notte che dura tutto il giorno, con la delusione, con il silenzio. Si tratta della notte della vecchia creazione, che precede l’alba di un giorno nuovo. Avverrà come nella prima creazione, quando c’era la tenebra, e con una parola creò la luce. Ma oggi entriamo, dopo la festa del cenacolo, un po’ ubriachi e un po’ sconvolti, all’inizio di questa lunghissima notte, nel recinto del frantoio.

Rispetto agli altri evangelisti, il racconto di Luca si concentra sul tema della misericordia. La sua narrazione, in questo brano delicatissimo in cui traspare tutta la tensione umana e divina di Gesù, è sospesa nel mostrarci il volto misericordioso del Padre. Gesù si preoccupa dei suoi discepoli, più che per se stesso, quando dice loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Il suo pensiero va a noi, che ubriachi rischiamo di non comprendere ciò che viviamo, ciò che ci sta di fronte.

“Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi”. Gesù esce dal cenacolo, esce da una casa fatta di muri, e da questo momento passerà da palazzi e luoghi di torture, in cortili aperti, lungo le strade, fino a un monte. Da quel momento vivrà tutto fuori, immerso nel creato e nel grido generato dalla giustizia umana. Luca non cita neppure il Getsemani, ma ci parla del torchio descrivendo il volto di Gesù. Un luogo delle abitudini, ogni sera in questa settimana Gesù si ritirava in preghiera proprio “in questo luogo”, in questo tempio. Anche i discepoli sono con lui. “Giunto sul luogo”, detto da Luca, ci dimostra proprio il valore sacro di questo orto, perché nella tradizione il luogo era il tempio di Dio, tutto il resto era un non-luogo. Luogo è lo spazio del dialogo con Dio, dove si prega. E infatti Gesù chiede ai suoi amici: “Pregate”, lo chiede quasi come supplica. Ce lo chiede in questa notte, dentro al grido che viviamo ogni giorno. Dobbiamo imparare a pregare, a chiedere a Dio non ciò che vogliamo noi, ma ciò che è bene. Pregare per che cosa?

«Pregate, per non entrare in tentazione». Le tentazioni sono quelle che abbiamo visto all’inizio della Quaresima, nel deserto, tutte le tentazioni: il pane, il potere, Dio con la bacchetta magica, in estrema sintesi la tentazione di essere “io al centro”, il possedere tutte la cose, le relazioni con gli altri, il pianeta. La preghiera è fondamentale nel nostro processo di conversione ecologica, non è solo una simpatica abitudine o qualcosa che si fa perché ce lo dice la parrocchia o la diocesi, ma è la base per non entrare nella tentazione. Gesù entra nell’orto, ma chiede di non entrare nella tentazione.

Foto di nappy da Pexels

“Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso”, Gesù anzitutto si allontana dai discepoli, cerca il dialogo intimo, si separa perché è “santo”. Ma è bello soffermarsi un attimo su questa espressione, perché proprio un tiro di sasso? Il riferimento è alla fuga di Re Davide, inseguito dal figlio Assalonne (in ebraico אַבְשָׁלוֹם, che significa “il padre è pace”), che rifugiandosi sul monte degli ulivi viene attaccato da un lancio di sassi. Gesù, nuovo Davide, adesso è “quasi” a un tiro di sasso, è alla portata dei suoi discepoli. Tutti lo possono ferire, tutti lo possiamo ferire, con il rinnegamento, con la solitudine, con il tradimento: Gesù è l’agnello che si lascia ferire dai suoi discepoli. Il male profondo è l’abbandono, la sofferenza di Dio è nella sua solitudine rispetto all’uomo. E nel torchio di Getsemani, questa sera, questo abbandono è portato al livello più alto, quando lo stesso Gesù sentirà l’abbandono dal Padre. Gesù, pienamente umano, sceglie di vivere su di sé questo dramma immenso che sperimenta l’uomo, quando abbandona Dio. Ma nel suo caso è tutto più acuto, essendo una lacerazione della stessa trinità, l’abbandono del Padre con il Figlio. Tale è l’amore di Dio per l’uomo, da sperimentare la sua stessa lacerazione!

A differenza degli altri vangeli sinottici, in Luca si dice: “e, inginocchiatosi, pregava”, saltando il riferimento al terrore e all’angoscia che viene evidenziato negli altri racconti in maniera drammatica. Gesù si inginocchia, mentre la preghiera era solitamente recitata in piedi, ed è una preghiera continua, definita con il verbo all’imperfetto. Una preghiera cosmica, a contatto con la madre terra, in cui Gesù chiama Dio “Abbà”, cioè “papà”, una parola che ci ricorda la parola creatrice, una nuova creazione, a partire dalla tenebra e dal male del mondo. Anzitutto Gesù prende le distanze dal male, chiede al Padre: “se vuoi, allontana da me questo calice!”, cioè il calice della sofferenza che è voluta dagli uomini. Dio non vuole il male, sono gli uomini a costruire le croci, a infliggere sofferenze ai fratelli e al creato. Dio subisce questo male, e se potesse scegliere preferirebbe che questo calice fosse lontano da sé. Ma fugge anche la tentazione di un Dio con la bacchetta magica, tentazione di potere e di immunità, pregando: “Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. La radice di ogni male nel mondo risiede nell’esclusione di Dio, quando mettiamo il nostro ego al centro. La “mia” volontà che esclude la volontà di Dio, la volontà del bene. Gesù ha lo sguardo centrato, come comprenderà Francesco con il voto di “nulla di proprio”. Non basta essere poveri, ma nella vita bisogna ambire a non ritenere di proprio possesso nulla, perché il possesso è l’opposto dell’amore. A Getsemani, questo diventa incredibilmente chiaro.

Avere fede in Dio anche oltre il male, anche oltre l’ingiustizia. Questa cara ancella con cui abbiamo imparato a camminare in questo percorso verso la Pasqua, ancella di nome Giustizia: in fondo, a pensarci, non è giusto che Gesù venga condannato e ucciso da innocente, ma la grazia di Dio è più grande pure dell’ingiustizia evidente. La volontà umana avrebbe fatto fuggire Gesù, la volontà di Dio lo fa resistere nell’orto. Che grande insegnamento ci dona Gesù in questa sera di solitudine, di silenzio e di dolore: “non sia fatta la nostra volontà”, le nostre preghiere spesso egoistiche, che chiedono il bene per noi stessi, la “nostra” salute, il “nostro” lavoro, o nei casi di maggiore altruismo, la salute “dei nostri”, il lavoro “dei nostri”, la vittoria “delle nostre” guerre, il benessere “delle nostre” città. Ma piuttosto “sia fatta la tua volontà”, come preghiamo sempre nel Padre nostro, una volontà di bene per tutti, che supera la nostra idea di giustizia. Grande insegnamento di Gesù, proprio nella dimostrazione più alta della sua umanità: non era solo Dio che sapeva di risorgere, ma qui era un uomo che si sentiva lacerato nel suo rapporto con il padre, dentro una immensa ingiustizia. Nelle nostre ingiustizie, nelle nostre preghiere, noi sappiamo di avere a fianco Gesù, ma lui, invece, qui era terribilmente solo.

Foto di Julia Volk da Pexels

Il vangelo di Luca è il vangelo della misericordia, della dolcezza, e anche qui si conferma: in questa scena di angoscia, buio e solitudine, “gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo”. C’è un raggio di luce, uno squarcio nel buio, che illumina questo uomo inginocchiato a un tiro di sasso dai suoi amici addormentati, un angelo che annuncia, che ricorda la promessa. E in questa agonia, in questo agone, cioè nella lotta, “in preda all’angoscia, pregava più intensamente”: la preghiera, unica arma in nostro possesso di fronte alla sofferenza, al male del mondo, alle guerre, alle ingiustizie, per ricordarci che il problema non è morire – giustamente o ingiustamente prima o poi si deve comunque morire – ma il problema è vivere, senza avere un dialogo con Dio. La preghiera è la nostra opportunità di dialogo con Dio, di certezza della sua presenza al nostro fianco. In Gesù questo è ancora più drammatico perché Dio è lui stesso, e in questo frantoio sente la lacerazione di sé, un dolore che noi stessi non possiamo neppure immaginare. Al punto che “il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra”, la vita stessa, che per gli ebrei risiedeva nel sangue, schizza già via dal corpo e cade nella madre terra, come già a pregustare la sepoltura. Il sudore che esprime la vita attiva, il lavoro, il nostro quotidiano per vivere, le nostre fatiche, attraverso sorella acqua che esce dai pori della pelle, in questo torchio, diventa profezia di morte. Gesù viene come “spremuto”, come le olive nel frantoio, vede consapevolmente tutto il male del mondo che riceverà nelle prossime ore. Ecco quale è la vendetta di Dio, che ci viene mostrata dal volto di Gesù.

“Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza”. La tristezza e l’agonia. A un tiro di sasso questa è la grande differenza tra i discepoli e Gesù: la nostra umanità vive spesso nella tristezza, che ci rende già sconfitti nel dolore, ci lascia dormire; la divinità di Gesù risiede dell’agone, nella lotta, nel desiderio di rialzarsi – Luca usa lo stesso verbo per indicare la resurrezione – un desiderio forte, al punto che viene ripetuto due volte in breve tempo, quando “disse loro: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione»”. Alzarsi e pregare. Ecco cosa fare di fronte al male, anche quello più ingiustificabile. Questo il più grande insegnamento che riceviamo, in questa notte, tra gli ulivi del frantoio di Gerusalemme.

San Francesco, nella stupenda parafrasi al Padre nostro, ci ricorda che: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo e così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e dei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno” (FF 270). Ringraziamo il Signore per questo grande insegnamento che ci offre in questa notte di silenzio e di solitudine. Preghiamo in questa notte, anche dedicando il silenzio, affinché possiamo imparare da lui come vivere nelle ingiustizie e nel male del mondo. 

Laudato si’!