Giovedì 06 aprile
GIOVEDÌ SANTO – ANNO A
Mt 26, 36-46
Entriamo oggi nel culmine della storia di salvezza, con la liturgia del triduo pasquale. Con il triduo pasquale concluderemo anche questo itinerario di approfondimento del Vangelo, letto con lo sguardo suggerito dal Laudato Si’ di San Francesco e dalla Laudato Si’ di Papa Francesco, in connessione con il creato. Vi invitiamo a rallentare, a dedicare il tempo per approfondire e pregare su questi versetti della Parola. Per questo, la lettura dei brani di Matteo di questi giorni solenni sarà focalizzata sulla collocazione dei fatti, immersi nel creato. Un orto, un monte e un giardino. Questa sera ci troviamo nell’orto di Getsemani, in compagnia degli ulivi nell’ora della preghiera, dell’abbandono, dell’agonia di Gesù.
Getsemani, in ebraico “gat šemanîm” vuol dire “frantoio”, forse meglio “torchio”, luogo della spremitura delle olive. Il torchio nella tradizione ebraica richiama la vendetta di Dio, per esempio quando il profeta Isaia dice: “Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno, li ho calpestati con ira” (Is 63, 3). Oggi conosciamo meglio, in questo frantoio, cosa sia la vendetta di Dio attraverso l’esperienza di Gesù. Una narrazione, quella di Matteo, che ci descrive un uomo profondamente distaccato dagli altri, che soffre, che prega, che prova tristezza e angoscia, un Cristo patiens che grazie alla cultura francescana ci ha aiutati, secoli dopo, a uscire dall’immagine “gloriosa” della croce, quasi come se Dio non avesse neppure sofferto la passione, sapendo che sarebbe risorto. Invece Matteo, e poi l’arte e la cultura che si sviluppano dal XIII secolo, ci tengono a raccontarci anche l’agonia, la sofferenza, il pianto di Dio di fronte alla prova.
Qui ritornano molti temi che abbiamo già visto, lungo il cammino della quaresima qualche settimana fa, nella scena della Trasfigurazione: il dialogo Padre-Figlio, la ricerca del volto, la compagnia dei tre apostoli, che non comprendono ciò che hanno davanti. Qui, quasi in contrasto con la luce del Tabor, in questo monte scendono le tenebre, è notte, e la narrazione di Luca racconta tutte le ore della notte, della cattura, del giudizio, del calvario, della solitudine, dell’eclissi in cui a mezzogiorno si fa buio su tutta la terra. Una notte che dura tutto il giorno, con la delusione, con il silenzio. Si tratta della notte della vecchia creazione, che precede l’alba di un giorno nuovo. Avverrà come nella prima creazione, quando c’era la tenebra, e con una parola creò la luce. Ma oggi entriamo, dopo la festa del cenacolo, un po’ ubriachi e un po’ sconvolti, all’inizio di questa lunghissima notte, nel recinto del frantoio.
“Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani”. Gesù esce dal cenacolo, esce da una casa fatta di muri, e da questo momento passerà da palazzi e luoghi di torture, in cortili aperti, lungo le strade, fino a un monte. Da quel momento vivrà tutto fuori, immerso nel creato e nel grido generato dalla giustizia umana. Un luogo delle abitudini, ogni sera in questa settimana Gesù si ritirava in preghiera proprio “in questo luogo”, in questo tempio. E infatti Gesù chiede ai suoi amici: “vegliate con me”, lo chiede quasi come supplica. Ce lo chiede in questa notte, dentro al grido che viviamo ogni giorno. Dobbiamo imparare a pregare, a chiedere a Dio non ciò che vogliamo noi, ma ciò che è bene. Pregare per che cosa?
«Pregate, per non entrare in tentazione». Le tentazioni sono quelle che abbiamo visto all’inizio della Quaresima, nel deserto, tutte le tentazioni: il pane, il potere, Dio con la bacchetta magica, in estrema sintesi la tentazione di essere “io al centro”, il possedere tutte la cose, le relazioni con gli altri, il pianeta. E sono anche le tentazioni che abbiamo visto vivendo questa Quaresima Laudato Si’: individualismo, comodità, consumismo e tanti altri modi in cui ci siamo disconnessi dal creato e dai nostri fratelli e sorelle. La preghiera è fondamentale nel nostro processo di conversione ecologica, non è solo una simpatica abitudine o qualcosa che si fa perché ce lo dice la parrocchia o la diocesi, ma è la base per non entrare nella tentazione. Gesù entra nell’orto, ma chiede di non entrare nella tentazione.
“Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra”, con riferimento al terrore e all’angoscia che lo portano a vivere una preghiera di contatto totale con la terra. Una preghiera cosmica, a contatto con la madre terra, in cui Gesù chiama Dio “Abbà”, cioè “papà”, una parola che ci ricorda la parola creatrice, una nuova creazione, a partire dalla tenebra e dal male del mondo. Anzitutto Gesù prende le distanze dal male, chiede al Padre: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!, cioè il calice della sofferenza che è voluta dall’umanità. Dio non vuole il male, sono gli esseri umani a costruire le croci, a infliggere sofferenze ai fratelli e sorelle, e a tutto il creato. Dio subisce questo male, e se potesse scegliere preferirebbe che questo calice fosse lontano da sé. Ma fugge anche la tentazione di un Dio con la bacchetta magica, tentazione di potere e di immunità, pregando: “Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. La radice di ogni male nel mondo risiede nell’esclusione di Dio, quando mettiamo il nostro ego al centro. La “mia” volontà che esclude la volontà di Dio, la volontà del bene. Gesù ha lo sguardo centrato, come comprenderà Francesco con il voto di “nulla di proprio”. Non basta essere poveri, ma nella vita bisogna ambire a non ritenere di proprio possesso nulla, perché il possesso è l’opposto dell’amore. A Getsemani, questo diventa incredibilmente chiaro.
Grande insegnamento di Gesù, proprio nella dimostrazione più alta della sua umanità: non era solo Dio che sapeva di risorgere, ma qui era un uomo che si sentiva lacerato nel suo rapporto con il padre, dentro una immensa ingiustizia. Nelle nostre ingiustizie, nelle nostre preghiere, noi sappiamo di avere a fianco Gesù, ma lui, invece, qui era terribilmente solo.
“Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti”. La tristezza e l’agonia ci impediscono di guardare la grazia, di tenere gli occhi aperti. Quanti occhi appesantiti, questa nostra umanità! “Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino”. Alzarsi e pregare. Alzarsi e andare. Ecco cosa fare di fronte al male, anche quello più ingiustificabile. Questo il più grande insegnamento che riceviamo, in questa notte, tra gli ulivi del frantoio di Gerusalemme.
San Francesco, nella stupenda parafrasi al Padre nostro, ci ricorda che: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo e così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e dei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno” (FF 270). Ringraziamo il Signore per questo grande insegnamento che ci offre in questa notte di silenzio e di solitudine. Preghiamo in questa notte, anche dedicando il silenzio, affinché possiamo imparare da lui come vivere nelle ingiustizie e nel male del mondo.
Laudato si’!
Nelle tenebre la Speranza della Luce…